mercoledì 20 febbraio 2008

De arte scriptoria

Nel panorama goliardico attuale ci si trova di fronte a una serie di interessanti posizioni relative ai documenti cartacei, e più in generale alla trasmissione di valori, informazioni, idee e progetti attraverso la scrittura.
Tali posizioni possono riassumersi in due grandi correnti di pensiero, entrambe bene o male riconducibili al pensiero socratico. La prima corrente la definiremo "talebana", la seconda "hegeliana" (senza offesa per Hegel, ma non trovavo termine migliore). La sintesi filosofica della corrente talebana si coglie facilmente nel topos propugnato dai suoi sostenitori, secondo cui "i documenti scritti sono carta da culo".
Per quanto riguarda la corrente "hegeliana", i suoi sostenitori si spingono a riconoscere il valore del documento scritto nei suoi aspetti pittoreschi, folkloristici, o di trait d'union sentimentale al passato, evitando però di assegnargli alcun peso o vincolo di carattere giuridico, morale o valoriale.
Abbiamo detto sopra che entrambe le correnti possono essere riconducibili all'istanza socratica della preferenza della trasmissione orale di informazioni e precetti. Ciò che qui intendiamo tentare è una ponderata disanima delle due posizioni, nella speranza che tramite essa si possa elevare il dibattito sul testo goliardico scritto e -perchè no- tentare una rivalutazione dell'opera di Gutenberg (e, prima ancora, di quella del popolo fenicio).
Iniziamo con un esame del pensiero talebano, provando a dare una valutazione dell'espressione sopra menzionata. Il francesismo "carta da culo", volgarmente detta carta igienica, e l'identificazione simbolica (si spera sia solo simbolica. Al momento non sono disponibili studi sulla correlazione tra sostenitori del pensiero talebano e il fenomeno delle emorroidi) tra questo e ogni forma di testo scritto di natura goliardica sono base di notevole attività ermeneutica. Infatti, secondo alcuni il fatto che ogni testo scritto sia considerato carta da culo è prova di una posizione estremista nei confronti della scrittura. Essa sarebbe considerata spregevole, al pari delle feci umane, poichè quella si deposita sul foglio così come queste (o i resti di queste) impregnano gli strappi del rotolo. Tale posizione, che nega quindi ogni valore alla scrittura, ha dei riferimenti filosofici di prim'ordine. Da Platone al pensiero cristiano a Cartesio a Hume, in tanti possono essere considerati alla radice di tanto sdegno per la materia (in questo caso materia fecale) e di tanto apprezzamento per l'idea pura, che non si lascia imprigionare nella forma scritta. Se questa interpretazione fosse valida, si porrebbero i seguenti problemi:

a) Com'è possibile tanto ascetismo nel mondo goliardico? Esso dovrebbe essere caratterizzato più da un nietzschiano "amore per la terra" che da un ascetico rifiuto della materia. A tale appunto molti talebani rispondono "c'è materia e materia", dimostrando con ciò perlomeno di non essere feluche bianche.

b) Se l'idea pura è apprezzata ma la sua estrinsecazione nella forma scritta non lo è, perchè mai dovrebbe esserlo l'estrinsecazione in forma orale? Si tratta in ogni caso di codici comunicativi di natura umana, che come tali (volendo accettare l'impostazione platonica) non sono perfettamente riproducibili dall'uomo. A questa seconda osservazione la maggior parte dei talebani replica con argomentazioni di natura minchilista, abilmente sintetizzate da alcuni nel cruciale principio "non mi rompere i coglioni", di fronte al quale purtroppo la nostra capacità euristica si arresta.
Alcune frange estreme, però, tentano una controargomentazione basata sulle tesi dell'incomunicabilità. Principi e idee non possono essere trasmessi, nè in forma scritta nè in forma orale, e vanno appresi autonomamente attraverso uno sforzo mistico che porti prima o poi all'improvvisa illuminazione omnicomprensiva dei principi ultimi. Tale mirabile posizione deve confrontarsi però con la realtà del mondo goliardico. "Eppur si parla", si potrebbe dire parafrasando il Galilei: ma allora che si parla a fare, se non serve a nulla? In effetti alcuni talebani, convinti dell'inutilità tanto della scrittura quanto della parola, si limitano a una limitata gamma di atti di comunicazione primaria, quali sghignazzi, grugniti e ruggiti. Questi servirebbero a mostrare all'interlocutore, astraendo dal logos e pressando sul piano emozionale, la verità ultima, cioè quella dell'incomunicabilità totale. Tra i sostenitori di questa posizione, alcuni non rinunciano all'utilizzo di alcune forme stereotipate di comunicazione verbale, ad es. l'ordinazione al Dominus, o l'invito a pagare rivolto all'interlocutore. Qualcuno poi, pur non rinunciando alle premesse ermetiche, adopera le corde vocali "in omaggio alla Tradizione" (vedi articoli collegati) sciorinando ai malcapitati l'elenco dei 16 milioni di colori dei manti e delle feluche di ogni Ordine di ogni bus del cul dello stivale. Siamo in quest'ultimo caso di fronte a profondi conoscitori del "newspeak" orwelliano (per ulteriori approfondimenti si rimanda a G.Orwell, "1984", in particolare l'"Appendice sulla Neolingua").

Di fronte a questa prima ermeneutica del pensiero talebano, sommariamente richiamata, scioriniamo le seguenti considerazioni:

1-E' assolutamente necessario istituire corsi serali di filosofia teoretica (e pure di logica, vah) per gli studenti universitari di ogni Ordine e grado.

2-Potrebbe essere utile inoltre un corso extracurriculare obbligatorio sulle differenze tra il pensiero zen e il razionalismo occidentale (corrente che ha contribuito, tra l'altro, a fondare Studia e Universitates che i talebani sembrano, almeno formalmente, apprezzare)

3-(per i manti nobilissimi) Un'utile cura per limitare la piaga dei cultori della Neolingua, aspiranti concorrenti di ipotetici "Chi vuol esser milionario" in salsa goliardica, potrebbe consistere nel variare ogni tanto, e in maniera totalmente casuale, colori delle insegne, nomi delle cariche e via dicendo, abbastanza rapidamente da non permetterne una facile memorizzazione a chicchessia.

La seconda ermeneutica della frase "i documenti scritti sono carta da culo" ribalta quanto abbiamo visto finora. Essa è un vero e proprio platonismo al contrario. I fogli di carta bianchi si riempiono dell'elaborazione intellettuale così come i rotoli di carta igienica si impregnano dell'elaborazione intestinale. Al tempo stesso, l'aere si riempirebbe di onde sonore, frutto ancora una volta di una nostra elaborazione. Essendo feci, scritti e parole frutti dell'uomo, meritano tutti la stessa dignità. Si potrà dubitare che questa posizione, per le conclusioni a cui giunge, rientri nel novero della scuola talebana. Ma se si prosegue nel ragionamento, il dubbio svanisce. Infatti la destinazione ultima di scritti e carta da culo è la stessa: lo scarico del water, e la cloaca. Ma allora, avendo scritti e parole la stessa dignità, anche queste ultime devono finire a farsi il bagno da qualche parte. Probabilmente alle parole spetta sorte migliore, poichè i talebani che sostengono tale ermeneutica preferiscono affogarle in Bacco, macerandole il tempo che basta a svuotarle di ogni significato, o quantomeno a renderle utili come presupposto di un piacevole e maschio combattimento in ordine sparso (che alcuni con un certo disprezzo moralizzatore chiamano "rissa"). Tale ermeneutica ci sembra un po' più vicina alle bettole di periferia che al mondo universitario, ma probabilmente chi la sostiene avrà condotto profondi studi su Pasolini, Baudelaire o Raffaele Viviani e li avrà fraintesi in qualche modo.




Prima di venire all'impostazione hegeliana, una considerazione di natura sociologica: è stato notato che l'apprezzamento per le posizioni talebane si ritrova perlopiù tra i giovani, mentre una discreta parte degli anziani tende a condividere le posizioni hegeliane. Comunque,il nostro rispetto per entrambe rimane il medesimo.
Un'ulteriore premessa: in questa sezione ci preoccuperemo solo di saggiare la consistenza delle argomentazioni hegeliane relativamente alla considerazione dei documenti intesi come fonti di diritto. In seguito faremo qualche ulteriore considerazione sul valore assegnato dagli hegeliani alla trasmissione orale di precetti e insegnamenti.

Secondo gli hegeliani non importa cosa sia scritto nei documenti. Certo, sono piacevoli da leggere, utili per sapere cosa accadeva tanto tempo fa, ma certo non possono costituire un vincolo giuridico. Questo perchè la storia procede e col passare del tempo ci si deve rifare a ciò che la storia ha prodotto, non ai documenti scritti, il cui valore può essere esclusivamente di natura storica.
Questa posizione ha un limite teorico che fino ad ora nessun hegeliano ha notato, probabilmente perchè non gli è mai passato tra le mani il testo di Nozick "Anarchia, stato e utopia" (e certo, se no mica li chiamavo hegeliani!). In questo libro Nozick formalizza la teoria del titolo valido, che vi sintetizzo molto brevemente come segue:

"Se si può dimostrare che lo status quo deriva dallo stato di natura, attraverso una successione di titoli validi consecutivi e senza interruzioni, ognuno dei quali è legittimo, allora lo status quo è legittimo"

[Adesso non voglio star qui a tediarvi, anche perchè ho fame e premura di terminare questo scritto. Se non avete capito la frase fatemelo sapere o, meglio ancora, leggetevi Nozick]

Allora, un hegeliano che dice "non puoi basarti solo sui documenti, la storia segue il suo corso", sta implicitamente ammettendo che in un momento del continuum storico dev'essersi verificata una discrasia tra documenti e atti. In altre parole ci dev'essere stato un atto illegittimo. Perchè se non ci fosse stato, i documenti dovrebbero essere correlati uno a uno con gli eventi storici. Certo non tutti i documenti, perchè molti sarebbero stupidaggini e scherzi come si conviene al mondo goliardico, ma dovrebbe essere possibile ritrovare ALMENO UNA SERIE di documenti storicamente consecutivi che giustifichi lo status quo. E finchè questo è possibile, la posizione hegeliana non ha senso. Se essa ha senso, allora vuol dire che cerca di giustificare un atto illegittimo avvenuto nel passato.

E su questa direi che è il caso di terminare...

Scrivete, scrivete, qualcosa resterà.

martedì 19 febbraio 2008

Pensiero del giorno

Identità e libertà

Qualche giorno fa mi è capitato di chattare con una diciottenne della provincia di Milano. Facciamo quattro chiacchiere dopodichè le chiedo - del tutto disinteressatamente! - se è fidanzata e lei mi dice che convive. Specifica che ha conosciuto il suo uomo - 24enne - a giugno, e a ottobre sono andati a convivere. Stupito le chiedo come sia possibile che i suoi genitori abbiano acconsentito a lasciarla convivere alla sua età e, cosa più importante, con uno conosciuto da 4 mesi. Mi risponde che hanno avuto modo di conoscerlo, e si sono resi conto che era uno "coi controcazzi" perchè a 24 anni aveva già un'agenzia immobiliare.
Allora ho iniziato a riflettere su questa strana enclave americana che è l'hinterland di Milano. Un posto che i sociologi dovrebbero sprecarsi ad analizzare maggiormente. Non so se a Torino o a Roma sia la stessa cosa, ma ne dubito. 40 anni fa una fiumana di gente proveniente per lo più da paesini del sud popolava le aree intorno a Milano. I miei zii, un calabrese e una campana, sono arrivati in uno di questi paesini (poi paesoni) 25-30 anni fa, assieme ad altre migliaia di immigrati meridionali. Dopo aver sgobbato per 30 anni, questa fiumana meridionale si ritrova con una casetta, dei figli, un minimo di confort, zero cultura, e radici ormai scomparse. Ma osserviamo con attenzione i figli. Nati e cresciuti senza un retroterra culturale alle spalle, senza parenti, nonni o zie, che sono lontani e vedono una volta all'anno se tutto va bene. Vivono in posti dove a starci tre mesi di fila ti viene una gran voglia di conoscere l'eroina (questo lo dico per esperienza personale), arrivano se tutto va bene al quinto superiore in qualche istituto tecnico, si ritrovano tra amici dello stesso ceto e con lo stesso background, e sullo sfondo delle loro vite, eternamente sfavillante, sta Milano. Ci vanno nel weekend e vedono locali, lusso, modelle, belle auto, bella vita. Poi si guardano allo specchio, riguardano Milano e pensano: cazzo, devo arrivarci anch'io! L'obiettivo diventa guadagnare, diventare indipendenti il prima possibile, potersi divertire e, raggiunta una certa stabilità, metter su famiglia. Tutto all'insegna di un pragmatismo non mitigato da alcun freno identitario o culturale. Io vengo dal sud. Al sud, se a 18 anni hai un'idea imprenditoriale brillante, te la tieni in testa e ci fantastichi su. Questo non perchè i diciottenni meridionali siano dei fancazzisti, ma perchè al sud nessun genitore che possa permettersi di mandare il figlio all'Università gli permette di non andarci. Il pezzo di carta prima di tutto! Questo è solo un esempio. Conosco ragazze del sud che a 25 anni non hanno il permesso dai genitori per farsi un viaggio in treno da sole fuori città, mentre in questa strana enclave le ragazzine festeggiano la maturità andando in vacanza a Ibiza con le amiche.
L'aneddoto iniziale mi ha fatto pensare al trade off che c'e' tra identità e libertà. Quando i freni identitari sono scarsi, quando i genitori si preoccupano meno della reputazione (da me si direbbe "la nominata") che del successo personale dei figli, quando la mobilità orizzontale e verticale è non più una meditata opzione valoriale, ma un sentire intimo e profondo favorito dal ritrovarsi liberi e soli per decenni in una terra nè ostile nè accogliente, quando accade tutto ciò la libertà diventa massima. E tanta libertà può far venire le vertigini. Se parli con ragazzi e ragazze dell'hinterland, ti dicono che vengono da una serie di trascorsi sessuali un po' travagliati, o da brutte esperienze con l'alcool, o ti dicono che stanno cercando di smettere di farsi canne, o hanno definitivamente smesso di tirare coca. E questo a 18, 19 anni.
E' un estremo, poi c'e' l'altro estremo che è il sud, dove tutto fila liscio e il cursus honorum per entrare a far parte del mondo improduttivo è sempre quello. Università, praticantato, qualche conoscenza, e l'inutile posto di lavoro è assicurato.
Questo che c'entra con la Goliardia? Tanti parlano di Tradizione, tradizione sopra ogni cosa. Forse qualche nesso c'e'. Inteligenti pauca.

venerdì 15 febbraio 2008

Contratti a progetto

Eccoci, il momento tanto atteso è arrivato: la crapa pelada di un attempato studente ha prodotto quanto segue. Riceviamo e - più o meno volentieri - pubblichiamo.



IL TRADIMENTO DELLA TRADIZIONE

Per una società evoluta porsi la questione del concetto di tradizione è, in qualche modo, aprire una prospettiva nuova sul proprio senso d’identità e di coscienza di sé.

Vediamo prima di tutto che cos’è la tradizione o, almeno, cosa s’intende comunemente con questa parola.

La radice etimologica è il verbo latino tradere, il cui significato è consegnare, dare. Curioso che sia anche la radice del verbo italiano tradire. Viene allora da chiedersi cosa tradisce la tradizione. Volendo stuzzicare la nostra riflessione con un meta gioco linguistico potremmo affermare che la tradizione tradisce il presente. Ma in che senso? Vediamo di approfondire la questione.

Sul dizionario Garzanti leggiamo come definizione: “la trasmissione, di generazione in generazione, di qualsiasi elemento della vita e della cultura di un popolo (leggi, notizie, costumi ecc..) specialmente attraverso l’insegnamento orale anziché mediante documenti scritti: non tutto ciò che la tradizione insegna è vero”. Mentre per tradizionalismo leggiamo: “atteggiamento, modo di chi è attaccato alla tradizione.”

Talvolta si distingue tra tradizione orale e scritta: addirittura il Concilio di Trento, che durò 18 anni e partorì la Controriforma (quando ancora l’Italia non aveva avuto la Riforma), aveva stabilito che “la tradizione è il complesso delle verità rivelate appartenenti alla Chiesa e alla morale, non contenute nella Sacra Scrittura ma trasmesse da Dio alla Chiesa oralmente.”

Il punto è che la tradizione non è né un sistema né una dottrina. Essa è un filo d’Arianna che permette al passato di arrivare fino a noi. Nel senso comune, essa ci trasmette il messaggio di un lontano passato, quello della nostra origine, che abbiamo superato ma che, senza dubbio dal nostro intimo, dalle nostre cellule riceviamo un input nostalgico.

Questo, sinteticamente, quello che s’intende per tradizione. Possiamo quindi azzardare d’aver inteso che con tradizione non indichiamo la complessità di una verità scientifica ma, piuttosto, un modus operandi proprio dell’uomo, una capacità innata di auto-conservazione culturale, un sentire dello scorrere del tempo; una capacità, insomma, di volgere lo sguardo al proprio passato per riportarlo al presente e tentare così di affermare un’idea di identità capace di reggere la competizione con i cambiamenti operati dal tempo.

Tuttavia questa operazione non è mai lineare e puramente conservativa, ossia non si può mai recuperare in modo integro il passato, perchè nel farlo si agisce inevitabilmente (e fortunatamente) in modo attivo, così che la tradizione, o la memoria e i ricordi in genere, non garantiscono una verità ma piuttosto un’interpretazione che diamo oggi noi al passato. E’ sulla scorta di una consapevolezza del genere che sono stati scritti grandi capitoli dell’arte dello scorso secolo: pensiamo a Eliot, o a Stravinskij!

Senza memoria del passato non potremmo essere ciò che siamo oggi, ma noi oggi siamo quello che interpretiamo, di giorno in giorno, del passato e della nostra memoria. Un uomo affetto da un disturbo psicologico, ad esempio da attacchi di panico, vive la memoria di un trauma che ha subito da piccolo. È una memoria che evoca costantemente il passato e lo attualizza. Ma se questa memoria, se questa “presentificazione” del passato non venisse interpretata costantemente, di giorno in giorno nel presente, ogni guarigione dal trauma sarebbe impossibile. Il nostro passato sarebbe un eterno tempo presente. Mentre, essendo la guarigione possibile, dobbiamo concludere che, pur segnandoci e forgiandoci, la memoria presentificata nel divenire del presente del nostro passato, non è altro che un punto su cui poggiamo mentre la leva è l’interpretazione che diamo nell’oggi.

In pratica spesso si finisce col credere, erroneamente, il passato come un qualcosa di statico, di già definito e concluso che ci ha de-terminati come una semplice successione di eventi. Il fatto è che il passato non cristallizza la nostra identità presente, piuttosto è il presente, nel suo divenire, che cerca dei riferimenti, come una barca in navigazione in mare aperto che guarda indietro al faro e al porto per determinare la sua posizione rispetto al punto verso cui si sta dirigendo e spesso, questi punti di riferimento, li trova appunto nel passato. E la posizione del faro e del porto muta costantemente al mutare della posizione della nave. L’illusione di questa prospettiva mnemonica, dunque, è quella di crederci come semplice risultato della somma dei nostri giorni passati, dei ricordi, mentre siamo la navigazione stessa della barca, il procedere, l’incedere, ossia il cadere in avanti pur restando sempre in equilibrio.

Da piccoli abbiamo imparato a camminare e solo presentificando costantemente la memoria delle nostre cadute riusciamo in età adulta a non cadere ma interpretando i movimenti impacciati imparati da bambini, riusciamo da adulti a compier volteggi, evoluzioni ginniche e decidere quali strade percorrere. La forza del passato è tale che ci confonde fino a convincerci che la nostra identità è radicata solo nel passato mentre è una continua metamorfosi nel presente e che ci rende genitori di noi stessi, di ciò che saremo in futuro.

Il passato è dunque un ricordo mutevole, una massa soggetta costantemente a piccoli o grandi scosse telluriche: è il passato è, in definitiva, così come lo vogliamo ricordare e il ricordare è sempre un’azione compiuta nel presente.

La questione rilevante è la comprensione della genesi di ciò che definiamo come tradizione, ossia ci si chiede quando un costume, un uso, una consuetudine, ogni aspetto proprio del carattere e del pensiero di una società smette di essere tale e diventa oggetto trasmesso consapevolmente da una generazione all’altra.

Se continuiamo il gioco del dizionario, scopriamo che per la definizione di costume leggiamo “insieme delle abitudini proprie di una persona o di un popolo, essere solito” e come sinonimi indica “usanza, consuetudine”. Dunque, pur essendo legati in modo imprescindibile, manca una identità tra costumi e tradizioni.

Mentre la tradizione è l’eco di un passato evocato dalla memoria, il costume è il fiume carsico del Divenire e lo scarto tra Costume e Tradizione è proprio il passo che segna la distanza tra il quotidiano, l’oggi proiettato al domani e il passato.

Il fatto è che quando un costume smette di essere tale e viene percepito il suo scollamento dalla quotidianità del Divenire e del presente, viene consegnato alla memoria e passa di generazione in generazione come tradizione.

In questo senso la tradizione tradisce il presente, in quanto non fornisce una progettualità ma tenta di affermare costantemente come reale fondamento l’eco di un fantasma passato evocato per dare certezze di identità al presente.

Questo aspetto investe la società odierna in modi pervasivi.

Degli esempi potrebbero rendere più chiaro questo passaggio: oggi nessun occidentale considererebbe come tradizionale un abito completo, mentre il kilt scozzese è innegabilmente tradizionale. La differenza è che mentre il completo, giacca e cravatta per intenderci, è un costume, un uso abitato nel presente che si modifica costantemente e che ha una forte identità, ormai il gonnellino scozzese non viene più indossato se non in qualche occasione formale come una parata militare. Non è più abitudine, uso e costume, indossare il kilt mentre non c’è dirigente che non vada in ufficio con il suo bel completo grigio. Né si tratta semplicemente di questioni di moda. Nessuno considera tradizionale l’uso di pranzare a tavola con le posate perché si tratta, ovviamente, di un costume vivo, mentre sarebbe folle mangiare usando le tradizionali “posate” medioevali: mani e pugnali.

In ogni parte del globo possiamo mangiare un hamburger McDonald e non viene certo considerato come il tradizionale cibo americano. E ancora distinguiamo i cibi locali e tipici da quelli tradizionali perché, mentre i primi (come la pasta in Italia) sono consumati abitualmente, i secondi vengono cucinati sempre più raramente e la percezione è di qualcosa che sta scomparendo quando di fatto, è già scomparso o il processo è praticamente irreversibile. Nessuno parla della tradizionale spirito pasquale perché ancora è percepita come festa religiosa mentre lo spirito natalizio è tale perché il tratto caratteristico è ormai quello di una festività a sfondo quasi prettamente laico, multi religioso e consumistico.

Il costume ha un forza affermatrice di se tale che restiamo abbagliati e non cogliamo i mutamenti se non quando questi sono già radicati. Allora, quasi con nostalgia si cerca di tutelare aspetti e vecchie abitudini ormai cadute in disuso.

Quando la propria identità di riferimento si scolla dalla dinamicità del presente e dalla realtà ecco allora l’emergere di un isterico attaccamento a ciò che ancora può considerarsi tradizionale. Altrimenti, si genera una pretesa fintamente razionale di “aggiustare” i mutamenti del presente per renderlo più compatibile con le tradizioni: è quello che viene chiamato conservatorismo. Un’azione destinata inevitabilmente al fallimento in quanto volto a recuperare nostalgicamente qualcosa che non risponde più alle esigenze del presente, proprio per il suo essere tradizionale.

L’idea che si ha della propria identità (ormai mutata e comunque irrimediabilmente compromessa dai continui cambiamenti generati da nuovi bisogni e aspirazioni o da nuovi modelli di comportamento più efficienti), non riuscendo ad adattarsi alle esigenze e necessità del presente, si scolora di fronte al concreto mutamento della realtà circostante, cerca di recuperare, con inutile violenza, forma nel passato.

Nei casi più estremi e in società articolate in rigide strutture religiose che stridono con la realtà laica e aconfessionale affermatasi nel paese, tutto ciò produce una schizofrenia sociale capace di sfociare in un odio verso tutto ciò che è diverso contribuendo ad alimentare fazioni estremistiche e sfoghi terroristici. Gli estremisti islamici, dunque, per quanto a lungo negli anni a venire potranno perpetuare i loro attacchi alla società e alla cultura occidentale sono destinati inevitabilmente a scomparire, perché nascono già morti, nel fallimento. Vogliono difendere un sistema di valori che percepiscono in crisi, ossia in mutamento, senza accorgersi che questa capacità di osservarsi possono averla solo in quanto il sistema è già, di fatto, sostanzialmente e irrimediabilmente, mutato.

Niente che sia troppo lontano da noi, a pensarci bene.

giovedì 14 febbraio 2008

Buoni sentimenti - racconto di San Valentino

Questo mi è stato inviato tramite email dal caro FPMDS, e mi sembrava giusto condividerlo.

Per festeggiare il litugico santo dell'ammore, ecco una storiella approvata dalla CEI per descrivere il frutto del peccato che solo nel sacro vincolo trova la sua realizzazione:

Siamo in sala parto. La madre partorisce e il medico con delicatezza prende in braccio il bambino. Con fare attento, lo prende per i piedi e gli da uno schiaffetto sul sedere, per farlo piangere. Il bambino però rimane in silenzio e allora il dottore picchia un po’ più forte, poi comincia a prenderlo a schiaffi. La madre si spaventa ma il dottore gli dice che il bambino deve piangere. Allora comincia a prenderlo a cazzotti nella pancia, poi a gomitate, sempre più forte lo copre di mazzate, la madre comincia a urlare contro il medico e a chiedere aiuto, ma questi proprio mentre stava sbattendo il bambino contro il davanzale della finestra si mette a ridere e dice “Signora ma è uno scherzo! E' nato morto!”.

mercoledì 13 febbraio 2008

Prologo

Faccio parte di un gruppo di persone di poche pretese che si era messo in testa di rivoluzionare la Goliardia partendo da una pubblicazione online. Come per tutti i grandi progetti che partono da gente con le pezze al culo, tutto è andato dove doveva andare, cioè su un viale di Milano a caso (di notte eh). Quindi niente più audace e coraggioso tentativo di pungolare i detentori della Tradizione stimolandoli a interrogarsi sul senso di un'istituzione che all'alba del terzo millennio e bla bla bla... quanto piuttosto un semplice blog, raccolta di considerazioni sparse, poco meditate, non dissimili da quelle della prima teenagers mestruata e insicura che tutti voi avete avuto il piacere di incontrare qui in rete.

Il titolo del blog la dice lunga su come la penso. Quindi bene o male i prossimi post non saranno altro che una chiarificazione, o un approfondimento, o un meditato sputtanamento del titolo. Ovviamente i miei strali non saranno molto penetranti, essendo che le filippiche di un superfuoricorso contro la scarsa passione degli attuali studenti per l'Università otterrebbero più sghignazzi che capi cosparsi di cenere.

Gli interventi che vedrete pubblicati saranno probabilmente non solo miei. Alcune feluche rosa, appartenenti come me all'Università dei pellicani (d'ora in poi udp. La chiamo con questa perifrasi perchè, considerati i tempi che corrono, potrebbero denunciarmi per uso improprio del marchio o cose del genere), si sono messe in testa di sollazzare le loro velleità scrittorie. Fanno parte di quel gruppo di persone di cui sopra, ma credo che nella mia infinita arroganza selezionerò solo la parte meno molesta dei loro interventi, piazzandola in una apposita categoria che denominerò Co.Co.Co. (Collaboratori Cordialmente Considerati) o qualcosa del genere.

Vabbè io vi lascio qui che devo pensare a come agghindare questo blog.

Pensiero del giorno: fino al 1738, la Governance dell'Università di Padova era eletta DAGLI studenti TRA GLI studenti. 270 anni dopo, il rappresentante degli studenti al CDA dell'udp è gentilmente informato delle decisioni stabilite a cose fatte, tanto per evitare di sottrargli prezioso tempo per lo studio. Meditate gente, meditate.