venerdì 15 febbraio 2008

Contratti a progetto

Eccoci, il momento tanto atteso è arrivato: la crapa pelada di un attempato studente ha prodotto quanto segue. Riceviamo e - più o meno volentieri - pubblichiamo.



IL TRADIMENTO DELLA TRADIZIONE

Per una società evoluta porsi la questione del concetto di tradizione è, in qualche modo, aprire una prospettiva nuova sul proprio senso d’identità e di coscienza di sé.

Vediamo prima di tutto che cos’è la tradizione o, almeno, cosa s’intende comunemente con questa parola.

La radice etimologica è il verbo latino tradere, il cui significato è consegnare, dare. Curioso che sia anche la radice del verbo italiano tradire. Viene allora da chiedersi cosa tradisce la tradizione. Volendo stuzzicare la nostra riflessione con un meta gioco linguistico potremmo affermare che la tradizione tradisce il presente. Ma in che senso? Vediamo di approfondire la questione.

Sul dizionario Garzanti leggiamo come definizione: “la trasmissione, di generazione in generazione, di qualsiasi elemento della vita e della cultura di un popolo (leggi, notizie, costumi ecc..) specialmente attraverso l’insegnamento orale anziché mediante documenti scritti: non tutto ciò che la tradizione insegna è vero”. Mentre per tradizionalismo leggiamo: “atteggiamento, modo di chi è attaccato alla tradizione.”

Talvolta si distingue tra tradizione orale e scritta: addirittura il Concilio di Trento, che durò 18 anni e partorì la Controriforma (quando ancora l’Italia non aveva avuto la Riforma), aveva stabilito che “la tradizione è il complesso delle verità rivelate appartenenti alla Chiesa e alla morale, non contenute nella Sacra Scrittura ma trasmesse da Dio alla Chiesa oralmente.”

Il punto è che la tradizione non è né un sistema né una dottrina. Essa è un filo d’Arianna che permette al passato di arrivare fino a noi. Nel senso comune, essa ci trasmette il messaggio di un lontano passato, quello della nostra origine, che abbiamo superato ma che, senza dubbio dal nostro intimo, dalle nostre cellule riceviamo un input nostalgico.

Questo, sinteticamente, quello che s’intende per tradizione. Possiamo quindi azzardare d’aver inteso che con tradizione non indichiamo la complessità di una verità scientifica ma, piuttosto, un modus operandi proprio dell’uomo, una capacità innata di auto-conservazione culturale, un sentire dello scorrere del tempo; una capacità, insomma, di volgere lo sguardo al proprio passato per riportarlo al presente e tentare così di affermare un’idea di identità capace di reggere la competizione con i cambiamenti operati dal tempo.

Tuttavia questa operazione non è mai lineare e puramente conservativa, ossia non si può mai recuperare in modo integro il passato, perchè nel farlo si agisce inevitabilmente (e fortunatamente) in modo attivo, così che la tradizione, o la memoria e i ricordi in genere, non garantiscono una verità ma piuttosto un’interpretazione che diamo oggi noi al passato. E’ sulla scorta di una consapevolezza del genere che sono stati scritti grandi capitoli dell’arte dello scorso secolo: pensiamo a Eliot, o a Stravinskij!

Senza memoria del passato non potremmo essere ciò che siamo oggi, ma noi oggi siamo quello che interpretiamo, di giorno in giorno, del passato e della nostra memoria. Un uomo affetto da un disturbo psicologico, ad esempio da attacchi di panico, vive la memoria di un trauma che ha subito da piccolo. È una memoria che evoca costantemente il passato e lo attualizza. Ma se questa memoria, se questa “presentificazione” del passato non venisse interpretata costantemente, di giorno in giorno nel presente, ogni guarigione dal trauma sarebbe impossibile. Il nostro passato sarebbe un eterno tempo presente. Mentre, essendo la guarigione possibile, dobbiamo concludere che, pur segnandoci e forgiandoci, la memoria presentificata nel divenire del presente del nostro passato, non è altro che un punto su cui poggiamo mentre la leva è l’interpretazione che diamo nell’oggi.

In pratica spesso si finisce col credere, erroneamente, il passato come un qualcosa di statico, di già definito e concluso che ci ha de-terminati come una semplice successione di eventi. Il fatto è che il passato non cristallizza la nostra identità presente, piuttosto è il presente, nel suo divenire, che cerca dei riferimenti, come una barca in navigazione in mare aperto che guarda indietro al faro e al porto per determinare la sua posizione rispetto al punto verso cui si sta dirigendo e spesso, questi punti di riferimento, li trova appunto nel passato. E la posizione del faro e del porto muta costantemente al mutare della posizione della nave. L’illusione di questa prospettiva mnemonica, dunque, è quella di crederci come semplice risultato della somma dei nostri giorni passati, dei ricordi, mentre siamo la navigazione stessa della barca, il procedere, l’incedere, ossia il cadere in avanti pur restando sempre in equilibrio.

Da piccoli abbiamo imparato a camminare e solo presentificando costantemente la memoria delle nostre cadute riusciamo in età adulta a non cadere ma interpretando i movimenti impacciati imparati da bambini, riusciamo da adulti a compier volteggi, evoluzioni ginniche e decidere quali strade percorrere. La forza del passato è tale che ci confonde fino a convincerci che la nostra identità è radicata solo nel passato mentre è una continua metamorfosi nel presente e che ci rende genitori di noi stessi, di ciò che saremo in futuro.

Il passato è dunque un ricordo mutevole, una massa soggetta costantemente a piccoli o grandi scosse telluriche: è il passato è, in definitiva, così come lo vogliamo ricordare e il ricordare è sempre un’azione compiuta nel presente.

La questione rilevante è la comprensione della genesi di ciò che definiamo come tradizione, ossia ci si chiede quando un costume, un uso, una consuetudine, ogni aspetto proprio del carattere e del pensiero di una società smette di essere tale e diventa oggetto trasmesso consapevolmente da una generazione all’altra.

Se continuiamo il gioco del dizionario, scopriamo che per la definizione di costume leggiamo “insieme delle abitudini proprie di una persona o di un popolo, essere solito” e come sinonimi indica “usanza, consuetudine”. Dunque, pur essendo legati in modo imprescindibile, manca una identità tra costumi e tradizioni.

Mentre la tradizione è l’eco di un passato evocato dalla memoria, il costume è il fiume carsico del Divenire e lo scarto tra Costume e Tradizione è proprio il passo che segna la distanza tra il quotidiano, l’oggi proiettato al domani e il passato.

Il fatto è che quando un costume smette di essere tale e viene percepito il suo scollamento dalla quotidianità del Divenire e del presente, viene consegnato alla memoria e passa di generazione in generazione come tradizione.

In questo senso la tradizione tradisce il presente, in quanto non fornisce una progettualità ma tenta di affermare costantemente come reale fondamento l’eco di un fantasma passato evocato per dare certezze di identità al presente.

Questo aspetto investe la società odierna in modi pervasivi.

Degli esempi potrebbero rendere più chiaro questo passaggio: oggi nessun occidentale considererebbe come tradizionale un abito completo, mentre il kilt scozzese è innegabilmente tradizionale. La differenza è che mentre il completo, giacca e cravatta per intenderci, è un costume, un uso abitato nel presente che si modifica costantemente e che ha una forte identità, ormai il gonnellino scozzese non viene più indossato se non in qualche occasione formale come una parata militare. Non è più abitudine, uso e costume, indossare il kilt mentre non c’è dirigente che non vada in ufficio con il suo bel completo grigio. Né si tratta semplicemente di questioni di moda. Nessuno considera tradizionale l’uso di pranzare a tavola con le posate perché si tratta, ovviamente, di un costume vivo, mentre sarebbe folle mangiare usando le tradizionali “posate” medioevali: mani e pugnali.

In ogni parte del globo possiamo mangiare un hamburger McDonald e non viene certo considerato come il tradizionale cibo americano. E ancora distinguiamo i cibi locali e tipici da quelli tradizionali perché, mentre i primi (come la pasta in Italia) sono consumati abitualmente, i secondi vengono cucinati sempre più raramente e la percezione è di qualcosa che sta scomparendo quando di fatto, è già scomparso o il processo è praticamente irreversibile. Nessuno parla della tradizionale spirito pasquale perché ancora è percepita come festa religiosa mentre lo spirito natalizio è tale perché il tratto caratteristico è ormai quello di una festività a sfondo quasi prettamente laico, multi religioso e consumistico.

Il costume ha un forza affermatrice di se tale che restiamo abbagliati e non cogliamo i mutamenti se non quando questi sono già radicati. Allora, quasi con nostalgia si cerca di tutelare aspetti e vecchie abitudini ormai cadute in disuso.

Quando la propria identità di riferimento si scolla dalla dinamicità del presente e dalla realtà ecco allora l’emergere di un isterico attaccamento a ciò che ancora può considerarsi tradizionale. Altrimenti, si genera una pretesa fintamente razionale di “aggiustare” i mutamenti del presente per renderlo più compatibile con le tradizioni: è quello che viene chiamato conservatorismo. Un’azione destinata inevitabilmente al fallimento in quanto volto a recuperare nostalgicamente qualcosa che non risponde più alle esigenze del presente, proprio per il suo essere tradizionale.

L’idea che si ha della propria identità (ormai mutata e comunque irrimediabilmente compromessa dai continui cambiamenti generati da nuovi bisogni e aspirazioni o da nuovi modelli di comportamento più efficienti), non riuscendo ad adattarsi alle esigenze e necessità del presente, si scolora di fronte al concreto mutamento della realtà circostante, cerca di recuperare, con inutile violenza, forma nel passato.

Nei casi più estremi e in società articolate in rigide strutture religiose che stridono con la realtà laica e aconfessionale affermatasi nel paese, tutto ciò produce una schizofrenia sociale capace di sfociare in un odio verso tutto ciò che è diverso contribuendo ad alimentare fazioni estremistiche e sfoghi terroristici. Gli estremisti islamici, dunque, per quanto a lungo negli anni a venire potranno perpetuare i loro attacchi alla società e alla cultura occidentale sono destinati inevitabilmente a scomparire, perché nascono già morti, nel fallimento. Vogliono difendere un sistema di valori che percepiscono in crisi, ossia in mutamento, senza accorgersi che questa capacità di osservarsi possono averla solo in quanto il sistema è già, di fatto, sostanzialmente e irrimediabilmente, mutato.

Niente che sia troppo lontano da noi, a pensarci bene.

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